Rome - Contact & order: Geograph.Issues@gmail.com

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mercoledì 25 gennaio 2017

Trapcoustic su Sentireascoltare recensione

La romana Geograph Records è un chiaro esempio di virtuosismo dell’underground, ovvero portare avanti un fiero discorso di appartenenza scoprendo continuamente gemme che poi, chissà, verranno valorizzate altrove (vedi alla voce Calcutta). È il caso di Trapcoustic, ennesima sigla dietro cui si cela quel vulcano in continua eruzione che risponde al nome di Demented Burrocacao, uno che se non lo conoscete, beh, avete degli evidenti problemi o avete sbagliato pianeta. Trapcoustic è la sigla (ehm) più normale, anzi forse sarebbe da dire quella meno rumorosa se confrontata con, ad esempio, il noise di System Hardware Abnormal, ma di sicuro non è a piombo neanche questa, spostata com’è sul versante latamente cantautorale che fu di grossi outsider delle musiche anni ’60 e ’70 come Skip Spence o Barrett, ma rivisto alla dirompente e caleidoscopica maniera dell’autore.
Non di chitarrina, voce e follia si tratta dunque, visto che tra aperture prog e falsetti storti, marcette sfatte ed elettronica a basso costo (ma altissima resa), archi campionati, pianoforti improbabili e campanellini, più una pletora di strumenti, strumentini e suoni di dubbia provenienza “concreta” a venir messe in scena sono pop-songs cristalline, tanto tenui e delicate quanto sfatte e pronte per il macero. Roba che ci fa intravedere fumose visioni di Wyatt che si alza in piedi e benedice dall’alto del suo infinito carisma la malinconia di fondo che pervade l’album, il folk inglese più intimista e le sue devianze contemporanee stretti in un abbraccio mortifero, i Beatles che sperimentano da subito e si fottono tutto il pubblico rimanendo in cantina a produrre gemme malsane, le architetture flebili e insieme orchestrali, bizzarre e mutevoli del Brian Eno “pop” più improvvisi squarci di catatonia malinconica e di bizzarria astratta fatta di curve a gomito e scrittura eccelsa, estasi momentanea e divagazioni improvvise. Insomma, si sarà capito: c’è un mondo iridescente come un opale appena scoperto dentro questo Shell (passo numero due di una “trilogia dell’esistenza” il cui primo passo, Speculum, è uscito poco tempo fa per Baby Yoga): non una nota che sia una fuori posto, di troppo o inutile e, al contrario, un quantitativo di input, rimandi, sogni a occhi aperti a pronta presa che, per quanto Trapcoustic si sforzi di ricordarci di non voler essere il nostro “paranoia dream” (in On The Line Of Heaven), ci rimane appiccicato come la salsa agrodolce di un sogno ben speso. Lavoro da playlist di fine anno in un mondo migliore, senza dubbio.
24 Gennaio 2017
 
Stefano Pifferi

Trapcoustic su New Noise

And at the end I never received affection. I never received love. I ended like a flower. Cut before it blooms. – The Flower
Trapcoustic è giunto al terzo album per la romana Geograph (dopo Bonsai Heart e il successivo Innerlands), ma la discografia con questo nome è molto più corposa. Trapcoustic è sostanzialmente il vestito pop (e malinconico) del prolifico Stefano Di Trapani, ve ne accorgerete sin dalle prime, storte note di “Colors And Demons”, e qui pensate pure a un misconosciuto autore della Roma dei Settanta che compone fragili canzoni per un ipotetico film di Dario Argento. Più lo si ascolta e più si fanno vivi i fantasmi del passato, soprattutto l’idea di questi fantasmi, un’idea che contempla arrangiamenti curati e al limite del barocco, anche se sempre ricoperti da un alone polveroso: in “Reordering My Mind”, ad esempio, sono sempre molto fantasiosi, poi a questo riguardo faccio cenno anche alla strana e scintillante “Blue Secret”, al finto (?) clavicembalo della filastrocca “The Spell” e alla funerea “The Flower”. In fondo Di Trapani si muove con destrezza tra le ragnatele del pop, quindi non deve meravigliare che questo Shell possa esser visto come il personale tributo a quelle passioni, non sta a me elencarli ma a voi immaginarli gli esempi mentre ascoltate quest’uscita a suo modo piuttosto originale e fatta con una cura certosina, anche nei testi. Inoltre va aggiunto che Di Trapani non si vergogna affatto di risultare a tratti melenso e teatrale (succede in “Split”), come Meat Loaf che all’improvviso scopre la misura grazie alla frequentazione di Harry Nilsson, o vistosamente melodico, decisivo l’arrangiamento con le campane (!) di “We Fight For Love”, forse il vertice dell’intero lavoro. Chiude il cerchio la notevole copertina di Francesca Grossi.

lunedì 23 gennaio 2017

Trapcoustic su Kathodik recensione

Trapcoustic ‘Shell’
(Geograph records 2016)

Come se le sonorizzazioni di videogiochi di culto anni Novanta (cfr. Take your humanity, girl) fossero state affidate a Syd Barrett (On the line of heaven); in sintesi estrema, questa potrebbe essere la fulminea descrizione di “Shell” di Trapcoustic − al secolo Stefano di Trapani, agitatore attivo in diversi progetti dell’underground romano.
Aberrante (Split) e poetico (Blue secret) allo stesso tempo, coacervo di melodie “storte” elaborate da tastierine The Residents di quattro soldi (il simil-clavicembalo di The spell, il simil-organo di War). A volte, peraltro, i brani sono, classicamente, belli (The flower il migliore).
Per appassionati della Borgata Boredom e della deviata anima psichedelica Geograph records.

martedì 3 gennaio 2017

III di Kawamura Gun su New Noise



Viene dal Giappone, anche se è davvero troppo alto rispetto al nostro stereotipo del giapponese, vive a Roma ormai da alcuni anni, dove si è integrato perfettamente con il fecondo panorama artistico del Pigneto. Musicalmente guarda all’Inghilterra degli anni Sessanta, quella dei Troggs e dei Turtles, per capirci.
Kawamura Gun, pittore oltre che musicista, è, come il titolo lascia intuire, al suo terzo disco per Geograph Records; come in passato, Kawamura mette a punto un repertorio di ammiccanti canzoncine dall’appeal immediato. Attenzione: ho detto canzoncine e non canzonette, in quanto, nonostante non eluda l’alternanza strofa-ritornello, si sforza di ridurre all’osso la forma-canzone, di asciugarla da inutili orpelli per colorarla di tinte piuttosto acide anzichenò. Rispetto alle precedenti prove possiamo dire che, per quanto si attenga a composizioni molto basilari, suonate con pochi accordi, il giapponese amplia lo spettro cromatico inserendo una gamma di strumenti più nutrita rispetto al passato, con qualche piacevole dissonanza e qualche spruzzatina di rumore qui e là che ci sta sempre bene. La chitarra acustica, a cui Kawamura si affida nelle sue performance dal vivo, ha il compito di seguire fedelmente le linee melodiche della voce, tiritere appiccicose di chiara discendenza j-pop che rimangono in testa anche per giorni.
Il gusto delle cose semplici, un po’ bambinesche, esotiche se vogliamo, ma non troppo.