Rome - Contact & order: Geograph.Issues@gmail.com

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giovedì 22 agosto 2013

Marco Fiori su Kathodik

http://www.kathodik.it/modules.php?name=Reviews&rop=showcontent&id=5436



Grip Casino ‘Upstart World’
(Geograph records 2013)

Inquietano e incuriosiscono le produzioni della Geograph records – se volete saperne di più su di loro potete iniziare da http://geographissues.blogspot.it/ – label capitolina dalle dissonanze non sempre gentili (abbiamo recensito tra l’altro Edoardo Calcutta peraltro presente anche in questa raccolta).
“Upstart World” di Grip Casino appare appunto degno sodale del Calcutta sopra citato: invece che alla canzone italiana l’approccio post-atomico viene riservato al country-rock nordamericano (cfr. Eyes, alle chitarre rigorosamente fuori tono il rievocato Edoardo). Reiterazioni tipiche dei Velvet Underground (cfr. Transmit, con la batteria di Gilberto Capurso), voce dolorosamente strascicata alla Jandek (cfr. Let Me Ask You): Grip Casino evoca il marasma sonoro di Dennis Wilson in “Pacific Ocean Blue”, ma senza il surf, le spiagge e l’oceano, ché qui siamo in borgata (cfr. Bad State). Il pianoforte sbrindellato, ma con sentori Beatles del fantomatico Trapcoustic fa il resto (cfr. The Eternal Aching Comedy…). Le canzoni, per quanto radioattive, non mancano di perversa orecchiabilità (cfr. Digging On My Grave o Terra in trance, fantasmi Robert Wyatt e Syd Barrett) e profonda malinconia (cfr. The girl know this, con le parole e la voce aggiuntiva di Francesca Grossi).
Per contatti: Geograph.Issues@gmail.com
Aggiunto: August 18th 2013
Recensore: Marco Fiori
Voto:
Link Correlati: Geograph Records Blogspot It

mercoledì 21 agosto 2013

Letizia Bognanni su Rock It


http://www.rockit.it/recensione/23039/ecalcutta-forse


Calcutta - recensione
Forse...

Lo-Fi, Garage, Pop

di , 21/08/2013

ALBUM

copertina album Forse... Calcutta
Un pensiero diffuso tanto da essere diventato praticamente un dogma su cui non riuscirò mai a trovarmi d’accordo è: “eh, però architettonicamente il fascismo ha fatto grandi cose”. Parliamone. Se per “grandi” si intende fisicamente grandi, ok, ma se invece si vuole dire “belle”, allora boh, sarò io ad avere problemi con le ostentazioni marmoree di maschialità imperiale, ma ogni volta che vado all’Eur mi colgono desolazione e freddo nelle ossa, mi fa lo stesso effetto di quei paesi del Texas con un Mc-drive, una pompa di benzina e un negozio di pistole: ne colgo il fascino oscuro, la bellezza no. Ecco, Calcutta viene dalla città fascista per antonomasia, Latina, e la sua musica ha quell’appeal un po’ lugubre che si associa alle geometrie di regime piantate sulle paludi: è respingente, con quelle chitarre scarne e gli effetti sgranati e la voce poco melodiosa, ma anche attraente in un modo vagamente malato, come un pomeriggio solitario ad agosto sotto il sole su una panchina in una piazza deserta. Calcutta racconta storie minime di amori andati male, matrimoni a Pomezia, disagi adolescenziali e sesso all’odore di “Arbre magique” (dove si cita il gran maestro dei cantautori diversamente intonati e la sua “cantina buia dove noi” che “non abbiamo avuto mai”. C’è la crisi!), come un Vasco Brondi illuminato dal lattiginìo dell’umidità basso-laziale invece che dai fari di notte e dalla gigantesca scritta Coop, come un Dente di frontiera. Astenersi immuni al fascino della decadenza.